Di te non so ancora praticamente nulla. A parte che vivi le mie stesse sconfitte .
So che hai il passo lento e sicuro. Mentre io ti camminavo affianco
titubante in questa Milano che non riesco più a sentire mia.
Anche il suono della tua voce è lento e rassicurante. Mi hai portato in questo posto sui Navigli, e tutti ti conoscevano e ti parlavano e
non ti mollavano un secondo. Ma tu poi sei venuto da me che me ne stavo zitta all’angolo , mi hai messo una
birra in mano. “Vieni, ti porto via”.
E così mi hai portato a casa tua. Mentre cucinavi per noi, io osservavo
un po’ te. Un po’ la tua casa.
Ho sorriso guardando i tuoi innumerevoli
dischi, il tuo pianoforte e tutti gli strumenti. Ho sorriso riconoscendo gli
ultimi segni ancora presenti di lei. Anche se dei nostri cuori uccisi abbiamo
solo appena accennato. Nessun riferimento. La prima cosa che ho avvertito è
stata l’estraneità all’odore. E poi all’improvviso la consapevolezza che nel
mio futuro ci sarebbe stati altri odori, altri libri sopra il comodino ed altre
scarpe e vestiti abbandonati sul divano e altri colori.
La cena è stata con le candele, calici
di vino bianco che ti preoccupavi di mantenere colmi, la tua musica in sottofondo e l’entusiasmo nei tuoi
occhi mentre mi parlavi della tua vita di musicista. Più di tutto di te mi è
piaciuto che, pur vivendo i miei stessi fallimenti, sei pieno di sogni e speranza.
Mentre io sono stata capace solo a star zitta.
Il resto è stato un ballo con le gambe che si toccavano e le tue mani sui miei fianchi a darmi il ritmo e i nostri respiri.
I tuoi occhi fermi dentro i miei tremanti, e poi bocche che sapevano dell’altra saliva, e
la furia esplosa. Perché bisognava rifarsi del tempo rubato. Dei progetti di
vita falliti. Bisognava leccare sulle nostre ferite per disinffettarle.
Bisognava toccarci e baciare lì dove avevamo sognato. Sospirare via la paura e nostri dolore.
Come se quell’amore così rabbioso
potesse guarirci. E forse un po’ per un attimo l’ha pure fatto.
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