venerdì 26 ottobre 2012

#1


Di te non so ancora praticamente nulla.  A parte che vivi le mie stesse sconfitte .
So che hai il passo lento e sicuro. Mentre io ti camminavo affianco titubante in questa Milano che non riesco più a sentire  mia.
Anche il suono della tua voce è lento e rassicurante. Mi hai portato in questo posto sui Navigli,  e tutti ti conoscevano e ti parlavano e non ti mollavano un secondo. Ma tu poi sei venuto da me che me  ne stavo zitta all’angolo , mi hai messo una birra in mano. “Vieni, ti porto via”.
E così mi hai portato a casa tua. Mentre cucinavi per noi, io osservavo un po’ te. Un po’ la tua casa.
Ho sorriso guardando i tuoi innumerevoli dischi, il tuo pianoforte e tutti gli strumenti. Ho sorriso riconoscendo gli ultimi segni ancora presenti di lei. Anche se dei nostri cuori uccisi abbiamo solo appena accennato. Nessun riferimento. La prima cosa che ho avvertito è stata l’estraneità all’odore. E poi all’improvviso la consapevolezza che nel mio futuro ci sarebbe stati altri odori, altri libri sopra il comodino ed altre scarpe e vestiti abbandonati sul divano e altri colori. 
La  cena è stata con le candele, calici di vino bianco che ti preoccupavi di mantenere colmi, la tua  musica in sottofondo e l’entusiasmo nei tuoi occhi mentre mi parlavi della tua vita di musicista. Più di tutto di te mi è piaciuto che, pur vivendo i miei stessi fallimenti, sei pieno di sogni e speranza. Mentre io sono stata capace solo a star zitta.

Il resto è stato un ballo con le gambe che si toccavano e le tue  mani sui miei fianchi a darmi il ritmo e i nostri respiri.
I tuoi occhi fermi dentro i miei tremanti,  e poi bocche che sapevano dell’altra saliva, e la furia esplosa. Perché bisognava rifarsi del tempo rubato. Dei progetti di vita falliti. Bisognava leccare sulle nostre ferite per disinffettarle. Bisognava toccarci e baciare lì dove avevamo sognato.  Sospirare via la paura e nostri dolore. Come  se quell’amore così rabbioso potesse guarirci. E forse un po’ per un attimo l’ha pure fatto.

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